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   Medici e clandestinità

20/03/2009 Italia
Hanno destato non poco stupore, non solo tra i giuristi e gli operatori sanitari, le affermazioni del Ministro dell’Interno On. Roberto Maroni, in ordine all’interpretazione dallo stesso addotta della norma contenuta nel disegno di legge sul cosiddetto “pacchetto di sicurezza”, che abroga il divieto per i medici di denunziare all’Autorità giudiziaria la condizione di “clandestinità” degli immigrati, che dovessero richiedere assistenza.
A dire del Ministro - principale ispiratore della citata norma nella compagine governativa - i medici e gli operatori sanitari, anche quelli addetti alle strutture pubbliche, non avrebbero alcun obbligo di denunziare lo “stato di clandestinità” dell’immigrato, ma solo la facoltà di effettuare la segnalazione agli organi competenti.
Siffatto modo di porsi tradisce con evidenza la difficoltà di giustificare la previsione normativa in parola, di fronte alle stringenti obiezioni che da più parti sono state sollevate, e rende – vieppiù – priva di senso logico la disposizione in parola.
Ci si dovrebbe chiedere – infatti – per quale ragione la maggioranza parlamentare avrebbe avvertito la necessità, pur tra mille polemiche, di approvare al Senato una disposizione che possa solo facultare e non obbligare i medici a denunziare l’immigrato clandestino.
Di certo, la necessità o la ratio della norma in parola non potrebbe essere individuata nell’esigenza di consentire a medici e a operatori sanitari - repressi (….sic!) dalla disposizione che sinora ha vietato loro di denunziare l’irregolare permanenza dell’immigrato nel territorio italiano – di poter compiere liberamente la loro delazione, perché così opinando si sfiorerebbe il ridicolo.
Tanto, a maggior ragione se si tiene in debito conto che la salute pubblica potrebbe essere gravemente minacciata dalla comprensibile riottosità che gli immigrati avrebbero – se fosse definitivamente approvata la norma in questione nel testo vigente – a farsi curare da adeguate strutture sanitarie, per il timore di essere denunziati.
Il Ministro poggia probabilmente la sua affermazione sul rilievo che l’art.365 secondo comma del codice penale non obbliga i medici e gli operatori sanitari a segnalare con referto la commissione di reati (più propriamente la norma si riferisce ai delitti), quando il paziente – per effetto della segnalazione - sarebbe sottoposto a procedimento penale.
Vi è però da evidenziare che allorché il medico o l’operatore sanitario dovesse avere contezza di un reato, svincolato da quanto emerge dall’esame clinico del paziente, come accadrebbe per il reato contravvenzionale previsto dall’art.21 del d.d.l. “di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano”, non verrebbe in considerazione l’art.365 c.p. ma la previsione degli artt.361 e/o 362 cod. pen., che prescrivono l’obbligo, rispettivamente per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di pubblici servizi, di segnalare – sempre e comunque – all’Autorità giudiziaria i reati dei quali dovessero avere contezza.
Le due norme in questione – gli artt.361 e 362 c.p. appunto – non prevedono, infatti, l’esimente del secondo comma dell’art.365 c.p. che esclude l’obbligo di referto, quando la persona assistita sarebbe esposto a procedimento penale in caso di segnalazione del reato all’Autorità giudiziaria.
Applicando – quindi – ai medici, in particolare a quelli addetti a strutture pubbliche, la previsione degli artt.361 e/o 362 c.p. questi sarebbero sempre e comunque, in quanto pubblici ufficiali o quanto meno incaricati di pubblico servizio, obbligati a denunziare gli immigrati che dovessero appalesare il loro stato di irregolare permanenza nel territorio dello Stato.
Ne consegue che l’interpretazione quasi “pentitistica” del Ministro non può certo rassicurare né gli immigrati né i medici e gli operatori sanitari, che - a mio sommesso avviso – sarebbero comunque tenuti, ove la Camera dovesse confermare il testo normativo già licenziato dal Senato, a denunziare all’Autorità giudiziaria l’immigrato che essi assistono, ove avessero contezza del suo stato di clandestinità.
Vi è – poi – da chiedersi: l’apparente favore che oggi si può riscontrare nei confronti della tesi fatta propria dal Ministro, in relazione alla quale sarebbe possibile che i medici si astengano dalla denunzia di immigrati in stato di clandestinità, come si tramuterebbe allorchè lo straniero in siffatta condizione dovesse commettere, dopo essersi fatto curare in ospedale, un reato di grave allarme sociale?
Che cosa si direbbe in tal caso del medico e degli operatori sanitari che, pur avendo rilevato siffatta condizione, non l’avessero segnalata all’Autorità giudiziaria?
Non è sufficiente – infatti – che un Ministro della Repubblica espliciti la sua personale interpretazione di una norma, perché i destinatari della stessa possano essere rassicurati sulla legittimità o meno dei loro comportamenti.
Le norme devono essere sempre interpretate dai giudici e non da esponenti politici, per quanto autorevoli essi possano essere.
E’ assolutamente necessario – quindi – che la disposizione in parola, già approvata al Senato e ora in discussione alla Camera, sia ampiamente rivisitata e se non si riterrà opportuna la sua cancellazione, come imporrebbe la tradizione italiana di civiltà giuridica e di accoglienza, la norma dovrebbe quanto meno chiarire expressis verbis che i medici non avranno alcun obbligo, ma solo la facoltà di segnalare il reato di irregolare soggiorno nel territorio italiano.

Domenico Insanguine

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   “LE DROIT DE L’IMMIGRATION EN EUROPE ET SES PERSPECTIVES MEDITERRANEENNES"
Marsiglia 26 Giugno 2008

“IL DIRITTO DI ASILO E LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE. PROFILI DI DIRITTO COMUNITARIO E ITALIANO”


Origini storiche: dall’asylon greco all’asilo laico
L’origine del termine asilo si deve alla lingua greca (asylon = inviolabile).
Gli antichi greci avevano moltissimi luoghi di culto, come tali inviolabili.
L’inviolabilità di tali luoghi era determinata dalla sacralità di questi luoghi, consacrati alle divinità che avevano il potere di proteggere chiunque vi si fosse rifugiato da qualsiasi punizione o vendetta.
Ove questi luoghi fossero stati violati le divinità avrebbero vendicato il sacrilegio, nei confronti dell’intera comunità della quale faceva parte il sacrilego.
Se ne può dedurre che il vero scopo dell’asilo greco era quello di affermare il potere divino e non certo la tutela della vita umana.

* * * *

Nell’antica Roma l’asilo venne praticato in modo più limitato.
Per la verità, si affermò un altro istituto – l’esilio - per molti simile a quello dell’asilo.
Ogni cittadino, prima che il magistrato lo giudicasse per il crimine, del quale era accusato, poteva scegliere volontariamente di essere esiliato per sottrarsi alla pena di morte.
La differenza con l’asilo greco è evidente: in Grecia era la divinità che affermava il suo potere:, a Roma la decisione sull’esilio era lasciata alla libera determinazione del cittadino.
* * * *

L’esilio ebraico consentiva a colui il quale era accusato di omicidio non volontario di rifugiarsi in alcune città sacre, per evitare la vendetta dei parenti della vittima.
L’imputato riconosciuto innocente avrebbe potuto far ritorno nella sua città d’origine; in caso di condanna, egli veniva scacciato dalla città ed era esposto alla vendetta dei parenti dell’assassinato.
* * * *

L’asilo canonico consentiva alle persone di trovare rifugio nei luoghi di culto senza poter essere perseguite, pena la scomunica o l’interdetto e trovava la sua ragione d’essere nell’affermazione della pietà cristiana.
Con l’avvento degli Stati nazionali l’asilo canonico perse ogni rilevanza.
Già nel 1794, nel trattato di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, si leggeva: “Gli asili invitano più ai delitti di quello che le pene non allontanano”.
* * * *

L’asilo ricomparve nella Costituzione francese del 1793 in cui si proclamava che: “il popolo francese dà asilo agli stranieri banditi dal loro Paese per la causa della libertà e lo rifiuta ai tiranni”.
Si iniziò a parlare di asilo laico, mosso dalla vocazione degli Stati di affermare l’indipendenza del potere di governo a tutela delle proprie identità politiche e solo in via mediata della vita umana e della dignità delle persone.
* * * *

Il diritto di “asilo costituzionale”, lo status di “rifugiato e la protezione sussidiaria”, nell’ordinamento italiano e nel diritto comunitario.
Il terzo comma dell’art.10 della Costituzione italiana del 1948 recita: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’esercizio delle libertà democratiche, garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Molti deputati, componenti dell’Assemblea Costituente, durante il regime fascista e durante la guerra avevano goduto del diritto di asilo in altri Paesi e tanto faceva sì che essi conoscessero bene il valore e la necessità del suo più ampio riconoscimento.
Vi fu, per la verità, il tentativo di limitare la titolarità del diritto di asilo al solo “straniero perseguitato a causa della sua azione a favore della libertà” così come prevedeva il preambolo della Costituzione della IV Repubblica francese del 27 Ottobre 1946.
All’epoca dei lavori dell’Assemblea costituente si vivevano momenti drammatici, con veri e propri esodi di massa di milioni di sfollati e profughi, i quali migravano sia per motivi politici sia per sfuggire alla dominazione dei Paesi vincitori.
L’assemblea costituente ritenne sufficiente per poter limitare il rischio degli esodi di massa, (facendo così una scelta molto diversa da quella dei partecipanti alla Conferenza Internazionale di Grinevra nel 1951, a conclusione della quale si pervenne alla stipula della convenzione sullo status di rifugiato), di aggiungere nel comma III dell’art.10 l’inciso secondo il quale lo straniero ha dritto di asilo “alle condizioni stabilite dalla legge”.
La dottrina più avvertita e la giurisprudenza prevalente concordano nel ritenere la norma costituzionale in parola di carattere immediatamente precettivo.
Pur in assenza tutt’ora di una legge ordinaria organica sul diritto di asilo, da questa norma promana un diritto soggettivo perfetto per lo straniero che dovesse richiedere l’asilo per impedimento nel suo Paese di origine all’effettivo esercizio di una o più delle libertà democratiche riconosciute dalla Costituzione del 1948.
* * * * *

La competenza a delibare sulla richiesta di riconoscimento del diritto di asilo è in capo all’Autorità Giudiziaria ordinaria.
Per la verità le lungaggini delle cause civili in Italia rendono assolutamente inopportuna l’assenza di una legge organica sul diritto di asilo.
Né può ritenersi appagante, in sostituzione di una legge organica in materia di asilo, la recente attuazione in Italia della direttiva comunitaria 2004/83/CE sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale e dell’altra direttiva 2005/85 CE sulle procedure minime da applicare negli Stati membri ai fini del riconoscimento e/o della revoca del citato status, in virtù – rispettivamente – di quanto disposto dal decreto legge 19 Novembre 2007 n.251 e dal decreto legislativo 28 Gennaio 2008 n.25.
Peraltro, il Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 25 Marzo 1957 non contemplava tra le competenze comunitarie il diritto di asilo né la disciplina di ingresso nei Paesi comunitari di cittadini di Stati esteri, in quanto il diritto di asilo era considerato materia di competenza esclusivamente statale, da regolare al più nel quadro di relazioni bilaterali tra gli Stati.
Ma sin dalla metà degli anni ’80, l’allargamento delle problematiche relative ai flussi migratori portò a diverse iniziative nella materia dell’immigrazione e dell’asilo.
Il 15 Giugno del 1990 fu sottoscritta a Dublino la convenzione “sulla determinazione dello Stato competente per la presentazione della domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea”.
La Convenzione, entrata in vigore il 1 Settembre 1997, tra gli Stati firmatari tra cui l’Italia, risolve la questione relativa alle domande multiple d’asilo, presentate cioè in più Stati con la regola “one chanche rule”, la regola dell’esame della domanda da parte di un solo Stato secondo le regole previste dalla Convenzione.
Le direttive comunitarie del 2004 e del 2005 innanzi citate non contraddicono alla Convenzione di Dublino.
In virtù di quanto esplicitato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 come modificata dal Protocollo di New York del 1967, rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può e non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Pese di cui aveva la residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può e non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Restavano – quindi – esclusi da questa definizione di rifugiato coloro che, pur non essendo individualmente perseguitati, fossero fuggiti dal proprio Paese a causa di aggressioni esterne, occupazioni straniere, grave civili o altri avvenimenti di analoga gravità.
La direttiva comunitaria del 2004/83/CE – invece – ha sí accolto la nozione di rifugiato secondo le previsioni della Convenzione di Ginevra, con alcune importanti innovazioni e specificazioni ma anche quella di persona meritevole di protezione sussidiaria, nel caso di fondato timore che possano essere soggetti nel loro Paese di origine a danni gravi.
Sono considerati tali:
a) la condanna a morte o all’esecuzione;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;
La direttiva comunitaria definisce protezione internazionale lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria.
Nonostante l’allargamento della “protezione” rispetto alla definizione dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra, il diritto di asilo previsto dalla nostra Costituzione continua ad essere ben più ampio.
Tra gli aspetti più innovativi della direttiva 2004/83/CE che qualifica lo status di rifugiato o di persona bisognosa di protezione vi è l’obbligo per lo Stato membro che esamina la domanda di raccogliere e valutare le informazioni nel Paese di origine, indipendentemente dalla presentazione di documentazione di supporto da parte del richiedente e di valutare anche quelle circostanze o quei fatti accaduti nel Paese di origine successivamente al momento in cui il richiedente lo ebbe a lasciare.
Molto positiva è anche la definizione degli atti e dei motivi di persecuzione e l’inclusione tra gli agenti di persecuzione non solo dello Stato ma anche di tutte quelle organizzazioni che esercitano il potere in modo diretto o indiretto.
La legislazione italiana nel recepimento della direttiva ha fatto ampio uso della facoltà di concedere condizioni più favorevoli.
In relazione a quanto previsto dal legislatore italiano ai rifugiati è concesso il diritto di ottenere:
a) il permesso di soggiorno della durata di 5 anni (rinnovabile), oltre quindi la previsione triennale prevista dalla direttiva 2004/83 CE;
b) il documento di viaggio della durata di anni 5 (rinnovabile), mentre nella direttiva non è prevista alcuna durata minima;
c) l’accesso al pubblico impiego con le modalità previste per i cittadini comunitari.
Il decreto legislativo 19 Novembre 2007 n.251 riconosce ai beneficiari della protezione sussidiaria tra gli altri diritti:
a) il permesso di soggiorno di 3 anni oltre quindi la previsione annuale della direttiva;
b) il rinnovo del permesso, previa verifica delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione sussidiaria;
c) la convertibilità del permesso di soggiorno per motivi di lavoro;
d) il rilascio di un titolo di viaggio per stranieri, quando sussistano fondate ragioni che non consentono di chiedere il passaporto al consolato del Paese d’origine.
e) il diritto al lavoro subordinato e autonomo e all’iscrizione agli albi professionali in condizione di parità con il cittadino italiano;
f) il diritto al ricongiungimento familiare, alle condizioni previste per l’immigrato ma con facilitazioni in quanto all’accertamento della parentela, in parità, sotto questo aspetto, con i rifugiati.
* * * * *

Protocollo sull’asilo per i cittadini comunitari.
Ipotesi residuale in materia di asilo è quella prevista dal Protocollo allegato al Trattato istitutivo della Comunità europea per i cittadini degli Stati membri.
In tale protocollo si precisa che – per evitare strumentali interpretazioni e confusioni tra l’istituto dell’estradizione e quello dell’asilo -le ipotesi in cui è consentito l’esame di domanda presentata da un cittadino comunitario sono quelle previste tassativamente e si sostanziano in pratica nella violazione da parte dello Stato membro, paese d’origine del richiedente, dei principi di “libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto” previsti dall’art. F. par. 1 del Trattato di Amsterdam del 2/10/1997 oppure nell’ipotesi di deroga alla convezione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, determinata dallo stato di guerra o da altro pericolo pubblico che minacci la nazione.
E’ chiaro che, anche indipendentemente dalla previsione del Protocollo, in Italia questi casi rientrerebbero ampiamente nel diritto di asilo costituzionale.
* * * * *

Considerazioni conclusive
La condizione degli stranieri si può – quindi – riassumere così:
- quella dei cittadini comunitari;
- quella degli immigrati provenienti da Paesi terzi o apolidi e regolarmente entrati e/o soggiornanti;
- quella degli immigrati provenienti da Paesi terzi o apolidi e non regolarmente entrati e/o soggiornanti;
- quella degli immigrati richiedenti asilo o protezione internazionale.
Sono queste quattro condizioni molto diverse ognuna delle quali pone problematiche rilevanti e complesse.
La confusione tra l’una e le altre dimostra sí l’incapacità degli Stati membri di prendere coscienza delle loro diversità ma anche e soprattutto l’ipocrisia del sistema.
Infatti, per rimanere all’Italia, se dovessimo applicare la previsione del terzo comma dell’art.10 l’asilo dovrebbe essere riconosciuto anche a coloro che vengono in questo Paese provenendo da terre ove non esiste speranza di sopravvivenza o di una vita che possa garantire il minimo di benessere fisico e mentale.
E’ per questo che da 60 anni in Italia si è – invano – in attesa di una legge organica che disciplini il diritto di asilo senza contraddire la disposizione costituzionale dalla quale promana un diritto soggettivo perfetto.
La mancanza di una legge organica, dopo 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non è addebitabile solo all’ignavia della politica e del legislatore italiano, ma anche all’imbarazzo di dover ammettere l’impossibilità di portare a materiale conseguenza la precettività di una disposizione costituzionale molto liberale in un momento in cui l’opinione pubblica è fortemente pervasa da preoccupazioni relative alla sicurezza, all’ordine pubblico e anche al futuro occupazionale dei cittadini.
E’ - però – necessario, anche a costo di dover dolorosamente porre mano a una modificazione normativa dell’art.10 della Costituzione, addivenire a una coerenza del sistema che possa dare credibilità alle decisioni politiche, senza salti logici, come se il problema dell’inosservanza di una disposizione fondamentale dello Stato non esistesse.

Domenico Insanguine
Presidente dell’Osservatorio Giuridico Internazionale sulla Migrazione (O.G.I.M.)

Presidente emerito dell’Ordine degli Avvocati di Trani

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   La cooperazione giudiziaria tra Italia e Romania: realtà e prospettive
BARLETTA 5 Maggio 2008


“IL DIRITTO DI ASILO E LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE. PROFILI DI DIRITTO INTERNO E COMUNITARIO.”



Origini storiche: dall’asylon greco all’asilo laico
L’origine del termine asilo si deve alla lingua greca (asylon = inviolabile).
Gli antichi greci avevano moltissimi luoghi di culto, come tali inviolabili.
L’inviolabilità di tali luoghi era determinata dalla sacralità di questi luoghi, consacrati alle divinità che avevano il potere di proteggere chiunque vi si fosse rifugiato da qualsiasi punizione o vendetta.
Ove questi luoghi fossero stati violati le divinità avrebbero vendicato il sacrilegio, nei confronti dell’intera comunità della quale faceva parte il sacrilego.
Se ne può dedurre che il vero scopo dell’asilo greco era quello di affermare il potere divino e non certo la tutela della vita umana.
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Nell’antica Roma l’asilo venne praticato in modo più limitato.
Per la verità, si affermò un altro istituto – l’esilio - per molti simile a quello dell’asilo.
Ogni cittadino, prima che il magistrato lo giudicasse per il crimine, del quale era accusato, poteva scegliere volontariamente di essere esiliato per sottrarsi alla pena di morte.
La differenza con l’asilo greco è evidente: in Grecia era la divinità che affermava il suo potere:, a Roma la decisione sull’esilio era lasciata alla libera determinazione del cittadino.
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L’esilio ebraico consentiva a colui il quale era accusato di omicidio non volontario di rifugiarsi in alcune città sacre, per evitare la vendetta dei parenti della vittima.
L’imputato riconosciuto innocente avrebbe potuto far ritorno nella sua città d’origine; in caso di condanna, egli veniva scacciato dalla città ed era esposto alla vendetta dei parenti dell’assassinato.
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L’asilo canonico consentiva alle persone di trovare rifugio nei luoghi di culto senza poter essere perseguite, pena la scomunica o l’interdetto e trovava la sua ragione d’essere nell’affermazione della pietà cristiana.
Con l’avvento degli Stati nazionali l’asilo canonico perse ogni rilevanza.
Già nel 1794, nel trattato di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, si leggeva: “Gli asili invitano più ai delitti di quello che le pene non allontanano”.
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L’asilo ricomparve nella Costituzione francese del 1793 in cui si proclamava che: “il popolo francese dà asilo agli stranieri banditi dal loro Paese per la causa della libertà e lo rifiuta ai tiranni”.
Si iniziò a parlare di asilo laico, mosso dalla vocazione degli Stati di affermare l’indipendenza del potere di governo a tutela delle proprie identità politiche e solo in via mediata della vita umana e della dignità delle persone.
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Il diritto di “asilo costituzionale”, lo status di “rifugiato e la protezione sussidiaria”
Il terzo comma dell’art.10 della nostra Costituzione recita: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’esercizio delle libertà democratiche, garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Molti deputati, componenti dell’Assemblea Costituente, durante il regime fascista e durante la guerra avevano goduto del diritto di asilo in altri Paesi e tanto faceva sì che essi conoscessero bene il valore e la necessità del suo più ampio riconoscimento.
Vi fu, per la verità, il tentativo di limitare la titolarità del diritto di asilo al solo “straniero perseguitato a causa della sua azione a favore della libertà” così come prevedeva il preambolo della Costituzione della IV Repubblica francese del 27 Ottobre 1946.
All’epoca dei lavori dell’Assemblea costituente si vivevano momenti drammatici, con veri e propri esodi di massa di milioni di sfollati e profughi i quali migravano sia per motivi politici sia per sfuggire alla dominazione dei Paesi vincitori.
L’assemblea costituente ritenne sufficiente per poter limitare il rischio degli esodi di massa, (facendo così una scelta molto diversa da quella dei partecipanti alla Conferenza Internazionale di Grinevra nel 1951, a conclusione della quale si pervenne alla stipula della convenzione sullo status di rifugiato), di aggiungere nel comma III dell’art.10 l’inciso secondo il quale lo straniero ha dritto di asilo “alle condizioni stabilite dalla legge”.
La dottrina più avvertita e la giurisprudenza prevalente concordano nel ritenere la norma costituzionale in parola di carattere immediatamente precettivo.
Pur in assenza tutt’ora di una legge ordinaria organica sul diritto di asilo, da questa norma promana un diritto soggettivo perfetto per lo straniero che dovesse richiedere l’asilo per impedimento nel suo Paese di origine all’effettivo esercizio di una o più delle libertà democratiche riconosciute dalla nostra Costituzione.
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Invero, l’asilo potrebbe essere concesso nonostante l’esistenza di un procedimento penale nel Paese d’origine e anche in pendenza della richiesta di estradizione qualora la situazione di compressione delle libertà fondamentali abbia in qualche modo indotto la commissione del reato, ove lo stesso sia consistito in un atto che costituisca esercizio di una libertà garantita dalla Costituzione ovvero sia stato preordinato all’affermazione di diritti fondamentali negati.
Il carattere politico di un reato al fine di negare l’estradizione non è – però – da solo e di per sé sufficiente a far sorgere il diritto di asilo, dovendosi – comunque – riscontrare la compressione di almeno una delle libertà democratiche riconosciute dalla nostra Costituzione.
La competenza a delibare sulla richiesta di riconoscimento del diritto di asilo è in capo all’Autorità Giudiziaria ordinaria.
Per la verità le lungaggini delle cause civili in Italia rendono assolutamente inopportuna l’assenza di una legge organica sul diritto di asilo.
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Né può ritenersi appagante, in sostituzione di una legge organica in materia di asilo, il recente recepimento in Italia della direttiva comunitaria 2004/83/CE sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, introdotta nel nostro ordinamento con decreto legislativo 19 Novembre 2007 n.251 e dell’altra direttiva 2005/85 CE sulle procedure minime da applicare negli Stati membri ai fini del riconoscimento e/o della revoca del citato status, attuata nell’ordinamento italiano con decreto legislativo 28 Gennaio 2008 n.25.
Peraltro, il Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 25 Marzo 1957 non contemplava tra le competenze comunitarie il diritto di asilo né la disciplina di ingresso nei Paesi comunitari di cittadini di Stati esteri, in quanto il diritto di asilo era considerato materia di competenza esclusivamente statale, da regolare al più nel quadro di relazioni bilaterali tra gli Stati.
Ma sin dalla metà degli anni ’80, l’allargamento delle problematiche relative ai flussi migratori portò a diverse iniziative nella materia dell’immigrazione e dell’asilo.
Il 15 Giugno del 1990 fu sottoscritta a Dublino la convenzione “sulla determinazione dello Stato competente per la presentazione della domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea”.
La convenzione, entrata in vigore il 1 Settembre 1997, tra gli Stati firmatari tra cui l’Italia, risolve la questione relativa alle domande multiple d’asilo, presentate cioè in più Stati con la regola “one chanche rule”, la regola dell’esame della domanda da parte di un solo Stato secondo le regole previste dalla Convenzione.
Le direttive comunitarie del 2004 e del 2005 innanzi citate non contraddicono alla Convenzione di Dublino.
In virtù di quanto esplicitato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 come modificata dal Protocollo di New York del 1967, rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può e non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Pese di cui aveva la residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può e non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Restavano – quindi – esclusi da questa definizione di rifugiato coloro che, pur non essendo individualmente perseguitati, fossero fuggiti dal proprio Paese a causa di aggressioni esterne, occupazioni straniere, grave civili o altri avvenimenti di analoga gravità.
La direttiva comunitaria del 2004/83/CE – invece – ha sí accolto la nozione di rifugiato secondo le previsioni della Convenzione di Ginevra, con alcune importanti innovazioni e specificazioni ma anche quella di persona meritevole di protezione sussidiaria, nel caso di fondato timore che possano essere soggetti nel loro Paese di origine a danni gravi.
Sono considerati tali:
a) la condanna a morte o all’esecuzione; o
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;
La direttiva comunitaria definisce protezione internazionale lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria.
Nonostante l’allargamento della “protezione” rispetto alla definizione dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra, il diritto di asilo previsto dalla nostra Costituzione continua ad essere ben più ampio.
Tra gli aspetti più innovativi della direttiva 2004/83/CE che qualifica lo status di rifugiato o di persona bisognosa di protezione vi è l’obbligo per lo Stato membro che esamina la domanda di raccogliere e valutare le informazioni nel Paese di origine, indipendentemente dalla presentazione di documentazione di supporto da parte del richiedente e di valutare anche quelle circostanze o quei fatti accaduti nel Paese di origine successivamente al momento in cui il richiedente lo ebbe a lasciare.
Molto positiva è anche la definizione degli atti e dei motivi di persecuzione e l’inclusione tra gli agenti di persecuzione non solo dello Stato ma anche di tutte quelle organizzazioni che esercitano il potere in modo diretto o indiretto.
La legislazione italiana nel recepimento della direttiva ha fatto ampio uso della facoltà di concedere condizioni più favorevoli.
In relazione a quanto previsto dal legislatore italiano ai rifugiati è concesso il diritto di ottenere:
a) il permesso di soggiorno della durata di 5 anni (rinnovabile), oltre quindi la previsione triennale prevista dalla direttiva 2004/83 CE;
b) il documento di viaggio della durata di anni 5 (rinnovabile), mentre nella direttiva non è prevista alcuna durata minima;
c) l’accesso al pubblico impiego con le modalità previste per i cittadini comunitari.
Il decreto legislativo 19 Novembre 2007 n.251 riconosce ai beneficiari della protezione sussidiaria tra gli altri diritti:
a) il permesso di soggiorno di 3 anni oltre quindi la previsione annuale della direttiva;
b) il rinnovo del permesso, previa verifica delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione sussidiaria;
c) la convertibilità del permesso di soggiorno per motivi di lavoro;
d) il rilascio di un titolo di viaggio per stranieri, quando sussistano fondate ragioni che non consentono di chiedere il passaporto al consolato del Paese d’origine.
e) il diritto al lavoro subordinato e autonomo e all’iscrizione agli albi professionali in condizione di parità con il cittadino italiano;
f) il diritto al ricongiungimento familiare, alle condizioni previste per l’immigrato ma con facilitazioni in quanto all’accertamento della parentela, in parità, sotto questo aspetto, con i rifugiati.
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Protocollo sull’asilo per i cittadini comunitari.
Ipotesi residuale in materia di asilo è quella prevista dal Protocollo allegato al Trattato istitutivo della Comunità europea per i cittadini degli Stati membri.
In tale protocollo si precisa che – per evitare strumentali interpretazioni e confusioni tra l’istituto dell’estradizione e quello dell’asilo -le ipotesi in cui è consentito l’esame di domanda presentata da un cittadino comunitario sono quelle previste tassativamente e si sostanziano in pratica nella violazione da parte dello Stato membro, paese d’origine del richiedente, dei principi di “libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto” previsti dall’art. F. par. 1 del Trattato di Amsterdam del 2/10/1997 oppure nell’ipotesi di deroga alla convezione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, determinata dallo stato di guerra o da altro pericolo pubblico che minacci la nazione.
E’ chiaro che, anche indipendentemente dalla previsione del Protocollo, in Italia questi casi rientrerebbero ampiamente nel diritto di asilo costituzionale.
* * * * *

Considerazioni conclusive
La condizione degli stranieri si può – quindi – riassumere così:
- quella dei cittadini comunitari;
- quella degli immigrati provenienti da Paesi terzi o apolidi e regolarmente entrati e/o soggiornanti;
- quella degli immigrati provenienti da Paesi terzi o apolidi e non regolarmente entrati e/o soggiornanti;
- quella degli immigrati richiedenti asilo o protezione internazionale.
Sono queste quattro condizioni molto diverse ognuna delle quali pone problematiche rilevanti e complesse.
La confusione tra l’una e le altre dimostra sí l’incapacità degli Stati membri di prendere coscienza delle loro diversità ma anche e soprattutto l’ipocrisia del sistema.
Infatti, per rimanere al nostro Paese, se dovessimo applicare la previsione del terzo comma dell’art.10 l’asilo dovrebbe essere riconosciuto anche a coloro che vengono nel nostro Paese proveniendo da terre ove non esiste speranza di sopravvivenza o di una vita che possa garantire il minimo di benessere fisico e mentale.
E’ per questo – forse – che da 60 anni aspettiamo – invano – una legge organica che disciplini il diritto di asilo senza contraddire la disposizione costituzionale dalla quale promana un diritto soggettivo perfetto.
La mancanza di una legge organica, dopo 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non è addebitabile solo all’ignavia della politica e del legislatore, ma anche all’imbarazzo di dover ammettere l’impossibilità di portare a materiale conseguenza la precettività di una disposizione costituzionale molto liberale in un momento in cui l’opinione pubblica è fortemente pervasa da preoccupazioni relative alla sicurezza, all’ordine pubblico e anche al futuro occupazionale dei cittadini.
E’ - però – necessario, anche a costo di dover dolorosamente porre mano a una modificazione normativa dell’art.10 della Costituzione, addivenire a una coerenza del sistema che possa dare credibilità alle decisioni politiche, senza salti logici, come se il problema dell’inosservanza di una disposizione fondamentale dello Stato non esistesse.
Il Paese ha bisogno di chiarezza e non di sofismi.

Domenico Insanguine
Presidente dell’Osservatorio Giuridico Internazionale sulla Migrazione (O.G.I.M.)

Presidente emerito dell’Ordine degli Avvocati di Trani

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   Madrid 15-16/07/06 Convegno Unesco
MADRID 15 – 16 DE JUNIO 2006

CONVEGNO UNESCO
ENCUENTRO DE CIUDADES EUROPEAS CONTRA
EL RACISMO

* * * *

Una característica negativa del mundo occidental es la hipocresía institucional que se manifiesta cuando se piensa que los problemas de gran relevancia social, política y económica pueden ser resueltos solo con la afirmación de principios y prohibiciones contenidas en normas emanadas por varios ordenamientos jurídicos.
Esto es lo que actualmente sucede en la lucha contra el racismo y la xenofobia.
En todos los países, quien más o quien menos, donde se puede hablar de un estado de derecho existen normas y principios que prohiben y castigan con severas sanciones penales todo tipo de discriminación racial.
En mi país, Italia, el art.3 de la “Costituzione Repubblicana” del 1948 prevee que todos los ciudadanos tienen igual dignidad social y son iguales ante la ley sin distinción de raza, de lengua o de religión.
La Ley n.962 del 1967 sanciona el genocidio así como la publica instigación y la apologia de genocidio.
La Ley n.654 del 1975 que da ejecución a la convencion internacional de New York del 1965 sobre la elimininación de toda forma posible de discriminación racial, en el articulo 3 sanciona:
- con la reclusión hasta tres años a quien difunde, en cualquier modo, ideas fundadas sobre la superioridad, el odio racial, etnico o incite a cometer o cometa actos de discriminación por motivos raciales, etnicos, nacionales o religiosos;
- con la reclusión de seis meses a cuatro años a quien en cualquiere modo, incita a cometer o cometa violencia o actos de provocación a la violencia por motivos raciales, etnicos, nacionales y religiosos.
La Ley n.205 del 1993 ha previsto que todos los reatos cometidos con objecto de discriminación racial son por eso, agravados con una prevision de aumento de pena.
La Ley n.40 del 6 de Marzo 1998 que disciplina la inmigración y la condición del extranjero en el art.42 prevee la posibilidad de activar una acción judiciaria civil contra la discriminación.
Recientemente, han sido emanados los decretos legislativos n.215 y n.216 del 2003 que preven respectivamente la paridad de trato entre las personas sin distinción de origen racial o etnica así como la paridad de trato en materia de ocupación y condición de trabajo.
Una normativa de gran relevancia y tutela pero con pocos resultados concretos.
En ambito penalistico, en el 2001 se han emanado solo tres sentencias de condena por reatos relacionados con la discriminación racial o etnica, cuatro en el 2002, y dos en el 2003 y no han habido condenas ni en el 2004 ni en el 2005.
En ambito civil, no se conocen citaciones en juicios de casos discriminatorios cometidos por singulos individuos.
Qué significa todo esto? Qué el fenomeno del racismo en la sociedad civil y política italiana está muy limitado?
Seguramente no.
En Italia como en muchos estados de derecho, todo esto solo significa que la tutela contra la discriminación por motivos raciales, etnicos o religiosos es absolutamente abstracta y no es suficiente lo que se hace o como se hace para rendirla efectiva y concreta.
Es importante pero no suficiente que la idea o la opinión racista venga considerada un delito.
Debe pasar el mensaje que la idea o la opinión racista más que un delito es una idiotez, que no tiene razón de ser, ní historica, ní biológica, ní genética.
Lo sucedido hace algunos meses en las periferias de París y de otras importantes ciudades francesas demuestra que en Europa la discriminación por el color de la piel, por la diferencia de etnias, o por la profesion de otra fe religiosa, existe y puede determinar peligrosos conflictos sociales.
Es necesaría una educación que lleve al respecto de los otros.
Hoy, más que nunca, con el fenomeno de la inmigración de grandes masas, comportamientos xenofobos son muy frequentes sea por parte de personas comunes que por parte de políticos o de organismos institucionales.
Como es sabido, por xenofobia se entiende describir con una sola palabra el miedo, la aversión y el desprecio por todo lo que nos resulta extraño.
Hoy, la cuestión migratoria tiene que verselas con los prejuicios no solo raciales y etnicos sino también culturales, religiosos y económicos.
Es aquí donde el sistema occidental demuestra su hipocresía.
Por un lado, se introducen normas que prohiben o sancionan severamente cualquier forma de discriminación, por otro se hace siempre más dificil el ingreso de las personas que provienen de Países no comunitarios.
No hay duda alguna que los últimos dramaticos acontecimientos asociados a los estragos terroristicos son para muchos la ocasión para invocar mayor rigor a tutela de la seguridad interna de los países de acogida.
Sería un grave error si esto tuviese que llevar a reducir la politica de realización de las condiciones institucionales y de las medidas socio-económicas favorables a la reciproca comprension y al respeto de la identidad, de la etnia, de la cultura y del sentimento religioso del inmigrante.
La ciudad de Madrid, no obstante el terribile atentado terroristico que todos recordamos, no solo no se ha cerrado, sino que hoy es la anfitriona de esta magnifica assise en la que se debate de la lucha al racismo y a la xenofobia.
Por esto, y no solo por esto la ciudad de Madrid merece un aplauso largo y de admiración.
Madrid es el ejemplo más concreto de como se puede dar la justa atención a una política de seguridad y de tutela del orden público sin abandonar el importante valor de la solidaridad humana y de la apertura cultural a modelos de vida diversos del propio que pueden convertirse en un factor de crecimiento social.
He aqui, la importancia de la idea de la Unesco de realizar una red de municipios por la lucha al racismo y a la xenofobia, red fundamental ,entre otras cosas, para equilibrar la política gubernamental de algunos estados europeos que con la escusa del terrorismo y del fundamentalismo religioso han dado a luz una normativa casi xenofoba.
Los inmigrantes no pueden y no deben ser vistos como un peligro contra la securidad y el orden público o una amenaza a la ocupación laborativa de los autoctonos.
La época actual requiere una búsqueda de puntos de convergencia y de equilibrio entre diferentes universos de significado, valores y normas que se basan en distintas formas de pensar, en creencias religiosas diferentes. Si no se consigue el equilibrio, los conflictos y formas más o menos graves de anomia serán inevitables, lo que comportará un grave daño no sólo para los inmigrantes sino también para las sociedades de destino de la inmigración.
No solo, es además indispensable que los inmigrantes puedan sentirse parte de la comunidad en la cual viven.
El racismo así como el fundamentalismo religioso se combate solo si se actua una convivencia entre autoctonos e inmigrantes con la afirmación de un modelo intercultural en el cual las varias identidades no vivan en ghetos , sino libres de mantener cada uno de ellos las propias peculiaridades, ofreciendolas al conocimiento de los demás.
Amenudo, los inmigrantes no se sienten representados ni a nivel local en las administraciones y ni en los gobiernos y son obligados a convivir con gran dificultad con leyes expresas en lenguas diferentes de la propia, según culturas diversas de la propia, por personas diversas de ellos mismos.
En espera de la ciudadania “tan deseada”, el extranjero trabaja y vive sin poder usufruir del mismo “status” de los demás.
Los inmigrantes viven respetando leyes y normas que, ni directamente ni atraves de propios representantes, han podido discutir o aprobar.
Para evitar esta aporía se podria pensar a la preciudadania (figura elaborada en un proyecto status del O.G.I.M.), que se podria reconocer a los inmigrantes residentes ya desde un cierto periodo de tiempo aunque no suficiente para obtener la ciudadania.
La preciudadania, en concreto, seria un “status” que consentiría a las personas que provienen da paises no comunitarios el reconocimiento de importantes derechos que ya se aplican a los ciudadanos de los países miembros de la U.E. como la libre circulación en el ámbito del territorio de la Unión y el ejercicio de los derechos de voto en las elecciones administrativas.
Para que se afirme el dialogo y la paz social un importante sociologo ha hablado de la necesidad de la existencia de las tres «R»: reconocimiento, respeto y representatividad.
Creo que sea un mensaje justo, pero poco se podria obtener si no se hace referencia a otro valor, el de la solidaridad humana y economica que pueda finalmente prevaler sobre el egoismo que condiciona las decisiones de las personas y de los Estados.
Sin solidaridad y sin renunciar a una parte de privilegios de los cuales gozan las personas y los países más afortunados, el racismo y la xenofobia no serán vencidos.
Dos tercios de la población mundial vive en povertad o al límite de la subsistencia; el bienestar pertenece solo a un tercio de la población. Para evitar la explosion de conflictos sociales a nivel planetario esiste una sola alternativa: o se abren las fronteras a aquellos que escapan de situaciones de povertad o es necessario que en los paises de origen de estas personas se cree un desarrollo economico que consienta a la gente poder vivir con dignidad en su tierra.
Si los conceptos de globalización y nueva economía se interpretan como la legitimación de quienes ya “tienen” más de lo necesario para explotar los recursos de los que “no tienen” el mínimo para subsistir, no será posible frenar el deseo de tantos desesperados de llegar a tierras más prósperas que la suya.
En cambio, impulsando el desarrollo de los Países pobres y poniendo al servicio de todos los pueblos los recursos financieros adecuados, sería posible mejorar las condiciones de vida de millones de personas, que no se verían obligadas a seguir el ejemplo de esos desdichados que – súcubes de traficantes sin el mínimo presidio ético y de una delincuencia organizada cada vez más despiadada – se embarcan en “carretas” del mar, pagando a menudo con su vida el espejismo de la llegada a tierra.
Lamentablemente, en muchos países de la U.E. han sido aprobadas leyes que restringen mucho la posibilidad de obtener el visado de entrada y el estancia permitiendo una inmigración de élite yabriendo el mercato de trabajo solo a personas altamente qualificadas.
De este modo, la cuestion migratoria se agraba, porque a los países pobres se les sotrae no solo importantes recursos materiales sino “cerebros”, anulando la posibilidad de un rescate social y económico de estos países así como la esperanza que la gente pueda quedarse en su tierra de origen.
Es necesario lanzar mensajes diferentes.
No hacer nada por los paises pobres es una grave forma de racismo porque significa pensar que sea justo que los pocos recursos de estos paises sean beneficio de los más ricos del planeta.
En el último siglo la población africana ha pasado de 170.000.000 a 870.000.000 de habitantes.
La falta de desarrollo de los países africanos podria en los proximos decenios transformar el Mediterraneo, más de lo que ya es hoy, en una polverera.
De lo que sucederá en el Mediterraneo dependerá el futuro del mundo: la paz o la guerra, el encuentro o el choque entre civilizaciones.
El Mediterráneo, cuna de las civilizaciones más admiradas en la historia del hombre, tiene que volver a ser el mar de la vida y no de la muerte, algo que en los últimos años ha ocurrido cada vez con más frecuencia.
Braudel habla del “Mediterraneo” que representa mil cosas juntas. “No un paisaje, sino innumerables paisajes. No un mar, sino una sucesión de mares. No una civilización, sino una serie de civilizaciones apiladas una sobre otra”.
La historia del Mediterráneo está hecha de estratificación, pero al mismo tiempo de síntesis y de convivencia, de elementos portantes: la Cristianidad, el Islam y el Universo ortodoxo.
El sueño es la Europa de los pueblos, integrada con los otros países del Mediterráneo, una especie de Pax Romana: las Civilizaciones cuando se integran son también una acumulación de bienes, herencia de inteligencias, fuente de lazos culturales y económicos.



Ponencia de
Avv. Domenico Insanguine
Presidente
Observatorio Juridico Internacional sobre la migración (O.G.I.M.)








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   Processi migratori, mercato del lavoro e sviluppo regionale

SANARICA, 13 Aprile 2007

"Quale modello sociale di convivenza tra autoctoni e immigrati?”


……………L’EVOLUZIONE DELLE DINAMICHE MIGRATORIE
Sempre sono esistiti gli esodi migratori e tanto è avvenuto per sfuggire soprattutto alle angherie di due nemici storici della stabilità di insediamento dei popoli: il primo è la persecuzione per motivi politici, religiosi o etnici e il secondo è la povertà.
Sino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, l’immigrazione nei Paesi occidentali non fu considerato un problema.
Il lungo periodo favorevole di congiuntura economica spingeva i Paesi ricchi ad essere particolarmente magnanimi nel consentire agli stranieri di varcare le loro frontiere.
Anzi, in molti di questi Paesi l’immigrazione massiccia nel proprio territorio di lavoratori stranieri era considerato un indice significativo di crescita economica e – quindi– un vanto.
Basti pensare che nel 1964 la nota rivista tedesca “Der Spiegel” ebbe a pubblicare nella sua copertina l’immagine di un immigrato portoghese, nel mentre riceveva in premio dalle autorità politiche tedesche una bicicletta per essere stato il milionesimo lavoratore “straniero” ad approdare in Germania.
Un accadimento siffatto ai nostri giorni susciterebbe incredulità ed – infatti – è impensabile che possa accadere.
Non è un caso che solo alla fine degli anni sessanta quando le frontiere, per le mutate condizioni economiche cominciarono a diventare sempre più chiuse, si cominciò a discettare di “immigrazione illegale” e a distinguere gli immigrati regolari da quelli irregolari.
Fu così che negli anni ’70 l’immigrazione dal Nord Africa e dal Sud America cominciò a diventare un fenomeno da esaminare anche in Paesi come l’Italia e la Spagna, che sino ad allora erano considerate prevalentemente terre di provenienza e non di accoglienza dei flussi migratori.
* * * *

In Italia per la verità nel ventennio 1970 – 1990 i flussi migratori di cittadini di provenienza non comunitaria non suscitarono preoccupazioni di sorta.
Fu con lo sbarco nel 1991 di migliaia di albanesi sulle coste della Puglia che il fenomeno si evidenziò in tutta la sua drammaticità.
In fuga da un Paese - l’Albania - in rivolta, e dopo essersi affrancati dall’oppressione di un regime duro e liberticida, e approdati in Italia, in un Paese ammirato e sognato come approdo ideale anche per la sua vicinanza, questi diseredati furono “rinchiusi” nello stadio comunale di Bari per lunghi giorni.
La risposta dell’Italia e degli altri principali Stati membri dell’U.E. a quell’episodio drammatico non fu di certo un’apertura alle istanze, alle aspettative e alla richiesta di solidarietà sociale di tanti diseredati, ma una chiusura dei propri confini ancora più accentuata rispetto al “prima”.
Per questa ragione, per scoraggiare i flussi migratori, in Italia come altrove vi fu da subito un serrato dibattito sulla necessità di frenare in qualche modo l’esodo massiccio dei migranti, dibattito che in breve tempo portò a rendere assai più difficile non solo gli ingressi ma sinanco il riconoscimento della cittadinanza a coloro che da tempo vi risiedevano e lavoravano.
Fu così che in molti Paesi si pose mano alla revisione delle norme sulla concessione della cittadinanza agli immigrati.

…………..SCELTA DEL MODELLO SOCIALE DI CONVIVENZA
Il conflitto tra autoctoni e immigrati purtroppo c’è sempre stato.
Euripide fa dire a Medea “Non è giusto disprezzare chiunque tu abbia veduto senza averne sperimentato l’animo chiaramente e senza averne ricevuto l’offesa. L’ospite deve adeguarsi alla città che lo ospita, ma non è lodabile che chi ci ospita ci tratti acerbamente per sua tracotanza o difetto di conoscenza”.
Medea è un’isolata, un’incompresa, ritenuta pericolosa perché non condivide i valori e le convenzioni della società che l’ospita, società che non conosce le varie sfaccettature della sua sapienza.
Medea è considerata particolarmente pericolosa proprio perché sapiente per cui ella dice ironicamente che un padre fornito di ragione non dovrebbe istruire fuori misura i propri figli, perché li espone all’odio e all’invidia dei suoi concittadini, e nel caso di Medea la sua cultura la rende particolarmente odiosa ai cittadini ateniesi in quanto barbara.
Anche se l’intero sistema mondiale ha registrato forti cambiamenti strutturali che hanno ridisegnato la geografia umana di diverse aree del nostro pianeta, ancora oggi, come nell’antica Grecia, ogni gruppo etnico appare ancora radicato sui propri usi, costumi, tradizioni e credi religiosi poco disponibili ad un modello esistenziale multidimensionale e questo perché manca la pro esistenza e cioè il saper essere per gli altri e decentrarsi sugli altri.
A proposito della poca disponibilità all’apertura verso gli altri Edgar Brightman, filosofo americano, personalista e spiritualista del Novecento, afferma che la nostra cultura, non riuscendo a cogliere la ragione profonda della crisi valoriale moderna ha fatto ricorso a fattori storici per spiegarla; dapprima il capitalismo, poi il marxismo, quindi la tecnocrazia, il centralismo burocratico, la pubblicità, il consumismo e i mass – media, mentre per Brightman la causa è da rinvenire nella mancanza di spiritualità perché, secondo lui, l’unica scienza che può guidarci verso i valori è l’etica che ha due linee portanti, l’uomo e la dignità della coscienza personale e il principio di apertura e dialogo tra tutti gli uomini.
Nonostante le dichiarazioni di principio degli organismi internazionali, oggi purtroppo sono ancora milioni le persone perseguitate, prive di libertà e mancanti del minimo vitale per sopravvivere e che in tutto il mondo chiedono che vengano riconosciuti i loro diritti.
E’ chiaro che nei nuovi contesti planetari complessi e in rapida evoluzione il modello di società democratica e di stato di diritto non possono essere ridotti a semplici dichiarazioni di principio.
Sfidati dai loro stessi valori occorre verificare la validità di legislazioni, indirizzi politici e interventi sociali e culturali per trovare modi e strumenti che garantiscano effettivamente l’esercizio dei diritti umani, quei diritti che sono inerenti alla nostra natura e senza i quali non si può vivere come essere umani.
Non ci si può muovere però solo nella direzione dell’assistenza e del controllo sociale, ma superando un’ottica paternalistica, occorre far sì che maturi una cittadinanza attiva differenziata, basata sul riconoscimento dei diritti politici, sociali e culturali uguali per tutti coloro che coabitano un territorio perchè si possa attuare una reale integrazione democratica se è vero che la vera libertà può essere solo quella di un uomo valorizzato e che ha la responsabilità di essere se stesso.
Oggi, quindi, agli inizi del terzo millennio, in una situazione di grande incertezza sul futuro e di crescenti attentati all’universo della persona occorre la proposta di una civiltà personalista e comunitaria fondata sulla riscoperta del senso e del valore della persona e della comunità, perché possa trionfare un nuovo umanesimo integrale, solidale, capace di orientare eticamente la globalizzazione imperante nel nostro tempo.
Fatta questa necessaria premessa, è sufficiente dare uno sguardo a ciò che sta accadendo in Europa per rendersi conto che sono entrati in crisi e per diverse ragioni i modelli sociali di convivenza sinora considerati prevalenti.
In Francia la ribellione degli immigrati, molti dei quali già da tempo cittadini francesi, ha evidenziato l’inadeguatezza se non il fallimento del modello dell’assimilazione tradizionalmente proposto e perseguito dalle autorità di quel Paese.
E’ difficile dire quali siano le cause di questo fallimento ma è indubbio che la maggior parte degli immigrati, anche quelli diventati cittadini francesi, hanno mostrato chiari segni di insofferenza per una emarginazione sociale vissuta in maniera drammatica.
Nel Regno Unito, d’altro canto, con grande dolore si è dovuto prendere atto che gli attentati terroristici di Londra del Luglio 2005 furono eseguiti principalmente da immigrati, ormai di seconda e di terza generazione e con cittadinanza britannica.
Il drammatico evento ha – quindi – provocato profonde riflessioni sull’adeguatezza del modello britannico, (assolutamente diverso da quello francese), del “multiculturalismo”, del rispetto – cioè - delle diverse identità culturali, religiose e linguistiche.
Anche qui è difficile discettare sulle ragioni di questa presunta inadeguatezza; in particolare per chi non vive in quella realtà sociale sarebbe arduo argomentare se quell’evento drammatico possa essere considerato significativo o meno di un disagio di una parte non trascurabile di immigrati, anche di quelli di seconda e terza generazione, diventati cittadini britannici, ad accettare valori e principi fondamentali imperanti in quelle società.
I due principali modelli di convivenza operanti nell’Europa occidentale vivono – quindi – un momento assai difficile.
Tanto ha portato sconcerto e incertezza anche in altri Paesi.
Ancora pochi sanno che in Olanda, da tempo considerato non a torto un punto di riferimento per i diritti civili, è entrata in vigore dal Marzo 2006 una legge che rischia di diventare un pretesto per chiudere del tutto le frontiere ai cittadini non comunitari.
Il Parlamento olandese ha approvato l’introduzione di un test sulla lingua e la cultura dei Paesi Bassi per i cittadini non occidentali che richiedano il permesso di soggiorno.
Secondo la legge approvata chi voglia trasferirsi in Olanda e non provenga dai Paesi dell’Unione Europea, dalla Svizzera, Norvegia, Islanda, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone deve sottoporsi in patria, presso i locali consolati o ambasciate olandesi, ad un esame della durata all’incirca di venti minuti e dal costo di 350 euro. Gli aspiranti immigrati devono dimostrare una buona padronanza dell’olandese, utile requisito per integrarsi, rispondendo oralmente ad alcuni quesiti in un test telefonico computerizzato. Se non supera la prova, l’aspirante immigrato potrà sottoporsi nuovamente al test quante volte voglia, ma versando ogni volta un’ulteriore quota di 350 euro. Il governo olandese non fornisce documenti sui quali prepararsi in vista della prova, ma invia a casa ai richiedenti una videocassetta sulle abitudini e i costumi olandesi e alcuni test di prova con cui esercitarsi.
La giunta di centro-destra del Comune di Rotterdam consiglia addirittura di utilizzare la lingua olandese il più possibile per strada e a casa, perché un simile codice potrebbe fornire agli alloctoni, ovvero agli immigrati che sono olandesi di adozione, delle utili indicazioni per capire quali comportamenti gli autoctoni si aspettino da loro.
L’atteggiamento di “chiusura” delle autorità olandesi è probabilmente la risposta alla commozione popolare seguita alla uccisione, per mano di un immigrato di origine marocchina, del regista olandese Theo Van Gogh, assassinato in strada per ritorsione per avere concepito e diretto un film documentario sui costumi e sulle abitudini sessuali delle donne islamiche, film ritenuto dall’omicida un’offesa al Corano e alla religione musulmana.
* * * *

Per quanto comprensibile lo sconcerto dell’opinione pubblica, di fronte a un evento così drammatico, la decisione del Parlamento olandese di richiedere la conoscenza dell’idioma, della cultura e dei costumi locali, di fatto determinerà la chiusura delle frontiere o, al meglio, consentirà solo un’immigrazione di élite.
Se – infatti – può essere considerato del tutto normale, per l’acquisizione della cittadinanza, la dimostrazione della conoscenza della lingua e dei fondamenti della cultura del Paese concedente, è assolutamente esagerato chiedere siffatta conoscenza per il rilascio di un temporaneo permesso di soggiorno.
L’Olanda – quindi – con l’approvazione della legge qui citata non ha scelto un modello sociale di convivenza, ma rifiuta qualsiasi modello, preferendo limitare se non vanificare del tutto il fenomeno migratorio nel suo territorio.
* * * *

Se questo è lo scenario in alcuni dei principali Paesi di accoglienza dei flussi migratori, sarebbe opportuno che gli sforzi di politici, sociologi, giuristi e di tutti quelli che possono contribuire all’identificazione di un modello sociale di convivenza, siano tesi a non ripetere gli errori commessi e a definire nuove scelte e ad intraprendere nuovi percorsi.
L’Italia è stato per molti decenni un Paese di emigrazione.
Il suo ruolo, quindi, nell’accoglienza dei flussi migratori è relativamente recente.
Per questa ragione l’Italia mai ha espresso un originale e prevalente modello di convivenza con gli immigrati.
Spesso, troppo spesso nel nostro Paese le discussioni su temi di grande importanza più che far intravedere soluzioni pragmatiche finiscono per alimentare polemiche stucchevoli tra i vari schieramenti politici su riflessioni o mere opinioni che non meriterebbero neppure di essere evocate.
Non sfugge a questa iattura neppure il delicato tema dell’immigrazione.
E’ sufficiente citare, per rendersene conto, il “chiasso” provocato a suo tempo dalle affermazioni rese dal sen. Marcello Pera, all’epoca Presidente del Senato.
A parere della seconda carica istituzionale dello Stato, si dovrebbe aborrire qualsivoglia mira di multiculturalismo, per evitare un pericolo di inquinamento della nostra cultura e delle nostre regole di vita.
Prendendo alla lettera cotali affermazioni, le stesse non dovrebbero essere prese in seria considerazione, nonostante l’autorevolezza di chi le ha esplicitate, per la semplice ragione che la nostra Costituzione impedisce di conculcare l’identità e la personalità non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri (basti tener conto, a questo proposito, dell’interpretazione più volte conclamata dalla Corte Costituzionale degli artt. 2, 3, 10, 21 tanto per citare alcune delle norme applicabili anche agli immigrati).
Peraltro, ai sensi del terzo comma dell’art.3 della Legge Turco – Napolitano non modificato dalla Legge Bossi – Fini il documento programmatico che la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve predisporre ogni tre anni, “delinea gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone purchè non confliggenti con l’ordinamento giuridico”.
Non è – quindi – possibile impedire agli stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, di affermare i principi e i valori della loro cultura di origine, sempre che questi non confliggano con le norme del nostro ordinamento giuridico e – a fortiori – con l’analogo diritto delle altre persone con le quali essi dovessero relazionarsi.
La sortita del Sen. Pera oltre che suscitare dubbi dal punto di vista dell’opportunità politica e dei toni utilizzati (il riferimento al rischio del “meticciato” appare uno sproposito), si distanzia da scelte legislative già esistenti e consolidate nel nostro ordinamento giuridico.
In Italia si scontrano almeno tre diverse concezioni:
a) la prima evoca il convincimento che gli immigrati debbano necessariamente adattarsi ed integrarsi con gli stili di vita e i principi delle società di accoglienza;
b) vi è un’altra concezione, che si contrappone alla prima e che propugna la convivenza tra le diverse identità culturali, religiose e linguistiche;
c) una terza concezione è quella che auspica non solo la convivenza trae le varie identità ma l’affermazione di un modello effettivamente interculturale.
Al di là delle singole concezioni, è un dato di fatto che l’immigrazione è ormai un evento della quotidianità e come tale spesso incontra da parte della gente l’indifferenza, che forse fa più male del pregiudizio e del razzismo.
Proprio per questo nel linguaggio corrente la dimensione individuale dell’immigrato sparisce nell’indistinzione anonima del gruppo che li massifica e li segrega come “altri”, come “diversi” dagli abitanti dei paesi che li ospitano.
Non si deve dimenticare infatti che gli immigrati non vivono bene la loro condizione di marginalità; trattenuti ai bordi del sistema, esclusi dalla partecipazione alla gestione e al controllo di scelte politiche, economiche, sociali e culturali, essi percepiscono spesso le relazioni umane come rapporti gerarchici, regolati da una rigida divisione tra chi ha e chi non ha, tra chi impone e seleziona e chi deve passivamente adeguarsi.
Si palesa la necessità di predisporre strutture idonee a:
- Conoscere, salvaguardare e valorizzare il diverso da sé per appartenenza sociale, etnica, linguistica, religiosa.
- Agevolare situazioni di positivo scambio esperienziale come concreto approccio comunicativo.
- Favorire esperienze cognitive e sociali che consentano di operare confronti pluridimensionali, di valorizzare le differenze culturali e le loro ripercussioni nell’ambito normativo e legislativo.
- Fornire un adeguato supporto istituzionale e culturale per favorire processi di emancipazione e cooperazione nel rispetto dell’universale bisogno di identità, nella salvaguardia dei diritti e valori dell’umanità.
Per ottenere questo, è necessario, ancor prima di modificare le norme del proprio ordinamento giuridico, fare opera di convincimento, di informazione e di formazione.
E’ necessario combattere ogni forma di razzismo e di fondamentalismo: l’uno e l’altro portano allo scontro e non all’incontro delle civiltà.
Il dialogo è indispensabile.
Dialogando tra loro, le persone imparano a conoscere e a conoscersi.
Da qui, dal nostro Mediterraneo può e deve partire una nuova epoca, un modello di convivenza che faccia vivere le diversità come un valore e un arricchimento assoluti, per maturare la capacità di esercizio attivo di cittadinanza interculturale.

………….INFLUENZA DEL FENOMENO MIGRATORIO PER UNA NUOVA IDEA DI “CITTADINANZA”
Fin dall’antichità, l’idea di cittadinanza evocava l’appartenenza ad una collettività: per gli antichi greci l’uomo era innanzitutto un polites, perché la cittadinanza era la forma totalizzante della convivenza. Secondo quanto afferma Aristotele nella Politica, il possesso della cittadinanza definiva il diritto a partecipare alle funzioni legislative e giudiziarie della città – stato; tale diritto era concesso in base alla nascita e ai legami di sangue soltanto ai membri liberi della comunità, mentre era assolutamente negato agli schiavi e assai di rado concesso agli stranieri. Per l’uomo greco al di fuori della polis non c’era che barbarie e inciviltà. Se alla base della comunità politica greca c’era la partecipazione alla vita religiosa, alla base della comunità sociale c’era la famiglia costruita sulla monogamia; è quindi comprensibile che Erodoto descrivesse a fosche tinte riti e costumi dei popoli stranieri, dipinti come promiscui e poligami.
Nell’antica Roma ogni cittadino godeva del diritto di voto, ma non tutti i cittadini erano eleggibili alle cariche pubbliche; il diritto civile era rivolto ai cives e non si applicava quindi allo straniero: questi, solo per fare un esempio, non poteva sposarsi secondo il rito del matrimonio romano e i suoi figli, di conseguenza non erano pari ai figli di cittadini romani. Solo con l’editto emesso da Caracalla nel 212 d.C. la cittadinanza romana fu concessa a tutti i sudditi dell’impero.
D’altra parte, la resistenza ad accettare in seno alla società chi ha modelli di vita diversi non è solo storia antica: un paese come la Norvegia aveva fin dal 1814 una delle Costituzioni più democratiche di Europa, ma concesse solo nel 1887 la libertà religiosa agli ebrei.
Nella stessa Grecia moderna, sino alla istituzione della Repubblica nel 1974 l’eredità dell’impero ottomano, che spingeva i suoi sudditi ad associarsi sulla base di criteri etnici e religiosi, si affiancava alla tradizione culturale greca, con il risultato che il presupposto della cittadinanza fosse considerato il ghénos (la popolazione su base etno – culturale) e non il démos (la popolazione su base territoriale). Conseguentemente, il diritto di cittadinanza era collegato all’idea di “etnihikofrosyni” o “mentalità nazionale”, che finiva per escludere le minoranze musulmane e macedoni-slave.
Il concetto moderno di cittadinanza si sviluppò a partire dalla Rivoluzione francese, ma fu lo studioso inglese Thomas Humphrey Marshall – nella sua opera “Citizenship and Social Class” – verso la metà del secolo scorso – ad affrontare per primo il tema della cittadinanza all’interno di un’approfondita riflessione sulla democrazia. Marshall distinse i diritti dell’individuo in tre gruppi: diritti civili, diritti politici e diritti sociali, in costante espansione nel corso del processo storico e tendenti all’eguaglianza dei cittadini.
Fino ad allora il concetto di cittadinanza era stato esaminato secondo una prospettiva prettamente filosofico-giuridica, e tradizionalmente denotava l’ascrizione di un soggetto ad uno Stato nazionale, per connessioni territoriali e per legami di parentela. Il concetto di cittadinanza serviva solamente per distinguere il <> dallo <> e più che altro per distinguere i differenti diritti – doveri che venivano assegnati a due soggetti nei confronti di uno Stato sovrano. In <> l’accezione giuridica tradizionale di cittadinanza viene integrata e superata dall’ampio ventaglio di valenze politiche e sociologiche che ne fanno tuttora un concetto chiave per lo studio dei sistemi politici, oltre che un elemento necessario della definizione di democrazia.
Ancora oggi, il concetto di cittadinanza sembrerebbe rimandare semplicisticamente ad una distinzione tra un “dentro” e un “fuori” e alla dicotomia “cittadino / straniero”, ma i fenomeni migratori degli ultimi decenni inducono a riflessioni profonde.
Gli immigrati talvolta rinunciano ad identificarsi con il loro paese d’origine che li ha espulsi e perseguitati per il credo politico o la religione, o addirittura sono apolidi e quindi impossibilitati a sentirsi parte di un organismo statuale, perché forse privi persino di un solido punto di riferimento socioculturale. Giunti però nel paese di destinazione delle loro peregrinazioni, essi rischiano di sentirsi pura merce da sfruttare, in un luogo in cui non sono spesso riconosciuti come uguali, perché accettati come diversi, ma solo usati in qualità di lavoratori precari come utile forza lavoro disposta a lavorare in condizioni che un cittadino spesso rifiuterebbe. L’immigrazione, infatti, secondo Costantino Caldo, quasi sempre funge da ottimo ammortizzatore delle congiunture negative delle economie: gli immigrati costituirebbero una manodopera (spesso non qualificata e anche per questo ancora più sottopagata) di riserva, periodicamente utile nelle economie avanzate per abbassare il costo del lavoro nel gioco della domanda e dell’offerta. L’immigrato spesso può credere, allora, di essere ritenuto solo una pedina da spostare nel quadro economico e politico e non un soggetto da tutelare.
Lo status di cittadino è pertanto essenziale per non respingere ai margini della società l’immigrato e per non incoraggiare in lui il germogliare di sentimenti di odio, conseguenti alla sensazione di essere respinto e rifiutato. L’idea di cittadinanza ingloba quella dell’inclusione a pieno titolo nella comunità, quasi l’acquisizione della stessa fosse un’investitura e un riconoscimento della dignità di chi la possiede. Non a caso, il settecentesco “Catechismo rivoluzionario” veronese così recitava: “Il titolo di Cittadino è il solo titolo che conviene alla dignità di un uomo libero, perché questo nome esprime che esso è membro di un governo libero ed è parte della sovranità”. Il cittadino è in primo luogo infatti colui il quale gode di diritti politici, e poter partecipare alla vita democratica rende anche più deciso e motivato il rispetto di doveri e regole, se su di esse si è in qualche modo politicamente influito come opinione democratica. Quasi sempre gli immigrati non si sentono minimamente rappresentati, nemmeno al livello locale, nelle amministrazioni e nei governi, e sono costretti a convivere con molta difficoltà con leggi e doveri espressi in lingue diverse dalla loro, secondo culture diverse dalla loro, per persone diverse da loro.
In attesa della cittadinanza “sperata”, lo straniero lavora, risiede e quindi vive senza poter godere dello stesso status degli altri cittadini. In questa situazione si accordano agli immigrati i diritti di espressione e di lavoro, ma non quelli politici, e dunque si può dire che si toglie loro la possibilità di prendere parte “attivamente” alla vita democratica, di rappresentare i propri interessi, di formare l’opinione democratica in senso lato. Il tutto affermando l’obbligo che ad essi è imposto di contribuire con il loro lavoro e con i loro guadagni al benessere collettivo. Gli immigrati sono sottoposti a leggi e regole che non hanno avuto modo di contribuire – direttamente o indirettamente tramite propri rappresentanti – a discutere e a far approvare.
Sta di fatto che l’immigrazione, prima ancora che essere una soluzione dei problemi dei paesi di destinazione, è essa stessa un dato del problema. In un quadro di considerazioni più ampio, infatti, è indispensabile tener conto delle innumerevoli difficoltà che emergono dal fenomeno immigratorio, come quelle di ordine politico, vista la portata delle manifestazioni di intolleranza xenofoba che si stanno sviluppando in numerosi paesi europei. Ma è senza dubbio sotto il profilo sociale che si hanno (ed avranno in futuro) i problemi più delicati. Come ha osservato Bonifazi, <>.
Il concetto stesso di “cittadinanza” va – quindi – attentamente rivalutato, per comprendere la necessità della modifica effettiva dello status giuridico ad esso legato.
Nell’epoca in cui viviamo, anche le zone meno sviluppate e ricche del globo sono interconnesse e intersecate con l’Occidente per effetto di una globalizzazione assoluta nell’economia e nel mondo della comunicazione.
Proprio per questo, in Paesi in cui oramai è possibile avere la doppia cittadinanza, stanno fiorendo in questi anni ragionevoli proposte consone alle società multietniche attuali, che evidenziano l’obsolescenza del tradizionale concetto di cittadinanza. C’è chi addirittura sostiene l’auspicabilità dell’approdo ad una forma di cittadinanza multipla.

…………..LO STATUS DI “PRECITTADINO”
L’Unione Europea dovrebbe accedere a schemi normativi nuovi che possano privilegiare in tutti i Paesi membri l’uniformità del trattamento riservato agli immigrati.
L’unica strada da percorrere è quella di concedere ai cittadini di Paesi terzi, dopo un periodo di permanenza in uno dei Paesi membri, diritti assimilabili se non sovrapponibili a quelli attribuiti ai cittadini dell’U.E, viatico – questo status – per il futuro riconoscimento, su richiesta, della cittadinanza nazionale.
Così facendo si avrebbe una normativa certa: tutti i soggiornanti di lungo periodo parteciperebbero anche alla vita pubblica dei Paesi in cui soggiornano, con il riconoscimento del suffragio elettorale, attivo e passivo, quanto meno nelle municipali.
Questo nuovo status che si potrebbe definire di precittadinanza con un’espressione più semplice e più facilmente comunicabile di quella utilizzata dalla direttiva comunitaria 2003/109/CE di soggiornante di lungo periodo, determinerebbe l’abbandono di univoche visioni dell’immigrazione, vista ora in chiave di funzionalismo economico, ora in chiave di funzionalismo culturale o religioso.
Il noto scrittore svizzero Max Frisch ebbe a ricordare ai suoi connazionali “Cercavamo braccia, sono arrivate persone”, quasi a mo’ di ammonimento di fronte a quelli che gli svizzeri hanno ritenuto per molto tempo solo degli “utili invasori”, nel senso appunto dell’utilità economica connessa al fenomeno migratorio nella ricca Svizzera.
Siffatta consapevolezza deve indurre al riconoscimento in favore degli immigrati residenti nei paesi membri, in un tempo ragionevole (al massimo cinque anni, ma anche meno), di diritti che possano consentire agli stessi non solo la regolarità del contratto di lavoro e l’accesso alla sanità ma anche di usufruire degli altri servizi pubblici esercitando il diritto di voto quantomeno nelle elezioni amministrative per dare a loro il modo di partecipare, con la restante comunità dei residenti, alla scelta di chi dovrà rappresentarli in seno alla Comunità della quale fanno parte.
Lo status di precittadino limiterebbe anche il rischio dell’emarginazione lavorativa, evitando che si possa pensare ai maschi immigrati esclusivamente in chiave di occupazione operaia e alle donne immigrate solo in veste di collaboratrici domestiche o badanti.
Siffatto status, modificando la categoria tradizionale della cittadinanza e ritagliandosi un nuovo campo di significati e diritti affrancherebbe l’immigrato dalla sensazione di essere uno strumento d’utilità attraverso l’acquisizione di una condizione intermedia che appunto vada oltre il binomio classico cittadino / straniero. Concettualmente, tale status potrebbe ricordare la condizione dei meteci greci, eliminando però le scorie di discriminazione che ancora serpeggiavano nella polis antica: i meteci difatti godevano di una serie di diritti, tra i quali quello relativo all’acquisto di beni mobili, e potevano raggiungere un notevole benessere praticando l’artigianato e il commercio. Se da un parte in fatti occorre recuperare la concezione giusnaturalistica che postulava l’esistenza di diritti connaturati all’uomo, per ricordare come questo processo di allargamento dei diritti non possa assumere l’aspetto paternalistico della concessione benevola e pietosa, dall’altra si deve tenere presente che tra i diritti sociali che gli Stati dovrebbero garantire ai cittadini c’è “una gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale” (così T.H. Marshall, “Cittadinanza e stato sociale”). Lo stato di precittadinanza potrebbe appunto eliminare alcuni elementi di precarietà, in modo tale da consentire all’immigrato di radicarsi più profondamente nel tessuto sociale e lavorativo e abbreviare anche i tempi di ricongiungimento famigliare. Una volta regolarizzata la propria presenza sul territorio, sancita l'appartenenza ad esso e stabilizzata la situazione economica, il trasferimento dell’intera famiglia nel luogo d’immigrazione è un importante fattore di sicurezza e di prevenzione dai miraggi della delinquenza, come ha sostenuto anche la Caritas nel XII rapporto sull’immigrazione. La ricostituzione del nucleo famigliare strappa il singolo all’indeterminatezza di una solitudine pesante, che fa percepire come estranea la terrà d’immigrazione; l’ordine stesso della società inoltre presuppone la valorizzazione dell’appartenenza e delle pratiche di inclusione, anche simboliche, dell’individuo nella collettività. Anche la stabilità e la pace sociale traggono giovamento da una distribuzione diversa dei diritti, che dimostri atteggiamenti lontani da qualunque “cittadinismo” geloso e retrivo, che rischia talvolta anche di macchiare di “occidentalismo” la logica dei diritti. Secondo G.B. Sgritta, il cittadinismo sarebbe infatti la “difesa esasperata dei propri privilegi, delle proprie prerogative, dei propri interessi e dei propri diritti di tutela” e quindi “manifesta intolleranza verso coloro che vengono percepiti come una permanente e incomprensibile minaccia verso queste prerogative”. (“Politica sociale e cittadinanza”, in P. Donati, “Fondamenti di politica sociale”, Roma ).
Un nuovo concetto di civitas è utile alla prefigurazione di un assetto sociale non assolutamente altro rispetto a quello attuale, ma iscritto nello stesso presente come futuro realizzabile attraverso un cambiamento progettabile, richiesto a gran voce dalla stessa società multirazziale e multietnica in formazione e in azione.
Secondo la stessa evoluzione storica, è ora di riconoscere agli immigrati quelli che potrebbero rientrare nei diritti che Norberto Bobbio ha definito “di quarta generazione”, ovvero i diritti della fasce sociali tuttora marginalizzate. Secondo T.H. Marshall solo la cittadinanza sancisce la piena appartenenza ad una comunità perchè “l’uomo è, in quanto appartiene a qualcosa”. L’obiettivo è, quindi, per dirla con Giovanna Zincone, “tornare a Marshall e fare un passo avanti”.
Domenico Insanguine
Presidente dell’Osservatorio Giuridico Internazionale sulla Migrazione (O.G.I.M.)

Presidente emerito dell’Ordine degli Avvocati di Trani

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