Intervento del presidente dell'OGIM: multiculturalismo e centri di permanenza temporanea

 

Troppo spesso nel nostro Paese le discussioni su temi di grande importanza più che far intravedere soluzioni pragmatiche finiscono per alimentare polemiche stucchevoli tra i vari schieramenti politici su riflessioni o mere opinioni che non meriterebbero neppure di essere evocate.
Non sfugge a questa iattura neppure il delicato tema dell’immigrazione.
E’ sufficiente citare, per rendersene conto, il “chiasso” provocato dalle affermazioni rese dal Presidente del Senato, sen. Marcello Pera, nei giorni scorsi al meeting organizzato a Rimini dal movimento “Comunione e Liberazione”.
A parere della seconda carica istituzionale dello Stato, si dovrebbe aborrire qualsivoglia mira di multiculturalismo, per evitare un pericolo di inquinamento della nostra cultura e delle nostre regole di vita.
Prendendo alla lettera cotali affermazioni, le stesse non dovrebbero essere prese in seria considerazione, nonostante l’autorevolezza di chi le ha esplicitate, per la semplice ragione che la nostra Costituzione impedisce di conculcare l’identità e la personalità non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri (basti tener conto, a questo proposito, dell’interpretazione più volte conclamata dalla Corte Costituzionale degli artt. 2, 3, 10, 21 tanto per citare alcune delle norme applicabili anche agli immigrati).
Peraltro, ai sensi del terzo comma dell’art.3 della Legge 6 Marzo 1998 n.40, confluito nel T.U. 25 Luglio 1998 n.286 (meglio conosciuto come Legge Turco – Napolitano) non modificato dalla Legge 30 Luglio 2002 n.189 (più nota come Legge Bossi – Fini) il documento programmatico che la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve predisporre ogni tre anni, “delinea gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone purchè non confliggenti con l’ordinamento giuridico”.
Non è – quindi – possibile impedire agli stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, di affermare i principi e i valori della loro cultura di origine, sempre che questi non confliggano con le norme del nostro ordinamento giuridico e – a fortiori – con l’analogo diritto delle altre persone con le quali essi dovessero relazionarsi.
La sortita del Sen. Pera oltre che suscitare dubbi dal punto di vista dell’opportunità politica e dei toni utilizzati (il riferimento al rischio del “meticciato” appare uno sproposito), si distanzia da scelte legislative già esistenti e consolidate nel nostro ordinamento giuridico.
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Analoghe considerazioni è d’uopo fare in riferimento alla polemica sul “fermo amministrativo” (così come è stato chiamato) degli immigrati clandestini nei centri di permanenza temporanea, considerati da ampi strati della sinistra radicale veri e propri lager.
A questo proposito, è appena il caso di ricordare che vi sono tre distinte fasce di immigrati non comunitari:
a) gli stranieri muniti di regolare visto di ingresso, prima, e di permesso o carta di soggiorno, poi;
b) gli immigrati che arrivano irregolarmente o clandestinamente nel nostro Paese;
c) gli stranieri che, pur giungendo senza visto di ingresso, chiedono asilo politico e lo status di rifugiato.
Dovrebbero essere destinati ai centri di permanenza temporanea ai fini dell’identificazione, prologo dell’espulsione, gli immigrati indicati alla lettera b), mentre per i richiedenti asilo politico la procedura (cfr. D.P.R. 16 Settembre 2004 n.303) dovrebbe (il condizionale è d’obbligo perchè molti dubitano che venga sempre applicata) prevedere un serio accertamento della sussistenza delle condizioni per accogliere l’istanza di asilo e il riconoscimento dello status di rifugiato.
Non esiste nel diritto internazionale il diritto di entrare in un Paese straniero se non sussistono le condizioni previste dall’ordinamento giuridico di quello Stato per l’ammissione nel proprio territorio.
La rinunzia all’applicazione di questa regola, farebbe venir meno la stessa sovranità degli Stati.
Tanto considerato, è ovvio che gli immigrati clandestini, se scoperti, vengano respinti alla frontiera o se già presenti nel territorio espulsi.
Se non è possibile giungere all’immediato respingimento o espulsione degli immigrati irregolari, delle due l’una: o li si lascia subito liberi di circolare nel territorio, anche senza identificazione o li si trattiene in una struttura per un periodo massimo di tempo determinato dalla legge.
Nella prima ipotesi, verrebbe meno la stessa ragione d’essere della regola che limita l’ingresso di stranieri e qualsiasi persona si sentirebbe autorizzata ad entrare illegalmente in uno Stato che non gli appartiene.
Nella seconda ipotesi, un Paese serio e che sia effettivamente rispettoso dei diritti fondamentali della persona non può che vigilare acchè le strutture di permanenza degli immigrati irregolari siano organizzate e gestite in modo tale da evitare compromissioni e angherie a danno delle persone accolte.
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Solo per rimanere alle questioni qui evocate, sarebbe molto più utile delle sterili disquisizioni se i due poli politici affrontassero seriamente nell’ordine:
- il problema dell’adeguamento normativo e delle strutture sociali che possa consentire una pacifica convivenza tra coloro i quali sono già cittadini e quelli che ancora non lo sono per la loro origine straniera, nel rispetto delle varie identità culturali e religiose;
- la questione legata ai richiedenti asilo e allo status di rifugiato, approvando finalmente anche in Italia una legge organica in materia;
- la riorganizzazione dei centri di permanenza temporanea, che così come sono strutturati e gestiti spesso non consentono agli immigrati irregolari condizioni di vita rispettose dei diritti fondamentali della persona.

Domenico Insanguine
Presidente Osservatorio Giuridico
Internazionale sulla Migrazione